Ceppi di coronavirus e nuovi studi

Un nuovo studio dell'Università di Pechino indica l'esistenza di due ceppi di Coronavirus e afferma che uno è estremamente aggressivo. Tuttavia, gli scienziati europei mettono in dubbio tali affermazioni e hanno persino richiesto una ritrattazione.
Ceppi di coronavirus e nuovi studi
Leonardo Biolatto

Scritto e verificato il dottore Leonardo Biolatto.

Ultimo aggiornamento: 27 maggio, 2022

Un nuovo studio pubblicato sul National Science Review e condotto dal ricercatore di bioinformatica dell’Università di Pechino Jian Lu afferma che sono stati scoperti due diversi ceppi di Coronavirus. Uno sarebbe più aggressivo dell’altro. Tuttavia, gli scienziati europei mettono in dubbio tali risultati e l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) raccomanda prudenza al riguardo.

Secondo tale pubblicazione, il nuovo studio è stato condotto su 103 campioni genetici. I risultati indicano che esistono due ceppi di Coronavirus, designati come S e L. Il 30% dei campioni corrispondeva al tipo S, mentre il 70% coincideva con il tipo L.

Gli scienziati cinesi che hanno realizzato lo studio definiscono il tipo L come più aggressivo e più veloce nella trasmissione. Al contrario, il tipo S sarebbe più vecchio e, probabilmente, si è diffuso tra gli esseri umani per anni senza destare allarmi per via della levità dei sintomi.

Il nuovo studio cinese sui ceppi di Coronavirus

Lo studio è stato condotto dall’Università di Pechino e dallo Sanghai Pasteur Institute. In esso risulta che il Coronavirus di tipo S rappresenta la forma genetica ancestrale, ovvero il virus originario. Le mutazioni, la selezione naturale e le ricombinazioni hanno dato origine al tipo L, quello più riscontrato nelle prime fasi dell’epidemia in Cina.

I ricercatori spiegano che la frequenza della comparsa del tipo L, perlomeno in Cina, è andata diminuendo. Ciononostante, in base ai dati forniti dai 103 campioni analizzati, 27 di essi riguardavano casi verificatisi a Wuhan (Cina). Il 96% dei campioni è risultato positivo al tipo L, mentre solo il 4% al tipo S.

Dal canto loro, i restanti 73 campioni analizzati per lo studio riguardavano casi avvenuti in paesi diversi dalla Cina. In questo caso, l’incidenza è diversa: il 61,1% è di tipo L; mentre Il 38,4% appartiene al tipo S.

Ciò significa che il tipo L, il più aggressivo, si è diffuso con meno frequenza al di fuori della Cina. Per i ricercatori, ciò può essere dovuto alle rigide misure di controllo e prevenzione applicate dal paese. Ma può anche essere dovuto a una pressione selettiva più lieve, esercitata sul tipo S.

Coronavirus
Uno studio pubblicato di recente ha rivelato due ceppi di coronavirus COVID-19.

La necessità di nuovi studi

Finora esistono solo delle ipotesi sulla natura e la progressione dei due ceppi di Coronavirus. Alla luce di ciò, il nuovo studio conclude sostenendo che sono necessarie ulteriori ricerche in merito. Sottolineano, inoltre, che solo la combinazione dei dati genomici con le informazioni epidemiologiche e le cartelle cliniche dei casi di COVID-19 possono fornire risposte affidabili.

Gli esperti di malattie infettive sostengono che la comparsa di ceppi diversi è normale per questi microrganismi. Chiariscono inoltre, che è altrettanto normale che siano i virus meno patogeni a prevalere, in quanto riescono a insediarsi meglio nell’organismo della popolazione. Allo stesso modo, prevalgono i virus con una maggiore capacità di diffusione, ma con minore letalità.

Ricerca sul coronavirus
Lo studio dei ceppi di Coronavirus deve continuare per poter ottenere risultati concreti sulla letalità del COVID-19.

Controversie scientifiche sui ceppi di Coronavirus

Alcuni scienziati mettono in discussione l’interpretazione dei risultati del nuovo studio. La Dott.ssa Isabel Sola, direttrice del Centro Nacional de Biotecnología, in Spagna, afferma che lo studio non dispone di sufficienti informazioni per concludere che uno dei due ceppi sia più virulento dell’altro.

D’altro canto, il Dr. Oscar A. MacLean, dell’Università di Glasgow, nel Regno Unito, sottolinea che al momento si hanno 111 mutazioni di questo virus e che nessuna ha mostrato effetti significativi sull’epidemia. Afferma, inoltre, che il nuovo studio cinese risente di limiti metodologici, a partire dalle dimensioni ridotte del campione.

MacLean e la sua equipe si sono spinti oltre, chiedendo agli scienziati cinesi di ritrarre le loro conclusioni, dato che potrebbero causare maggiore confusione. L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), da parte sua, ha messo in guardia sulla sovra-interpretazione dei risultati e ha precisato che in entrambi i casi si tratta dello stesso virus.


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